Opeth + Amplifier
17.12.2006
Band:
Opeth
Amplifier
Luogo dell'Evento:
Alpheus
Città:
Roma
Promoter:
Live .
Kick Promotion Agency
Autore:
Cynicalsphere»
Visualizzazioni:
1269
Live Report
Quando torniamo a casa dopo un concerto, i nostri primi gesti sono quelli di recuperare e tradurre in parole le immagini di quel che abbiamo visto e sentito, per rendere almeno in parte partecipe il lettore di ciò che volente o nolente si è perso. Intendete questo concetto in senso letterale: dal momento che non abbiamo a disposizione “immagini” (ovvero: foto!), dovrete accontentarvi esclusivamente del racconto dello show a cui abbiamo assistito. Di ritorno dal concerto degli Opeth a Roma infatti, avevamo in testa un pensiero esternato la sera prima dallo stesso Mikael Åkerfeldt: “Rome is not good for metal”. Potremmo dire piuttosto: “Rome is not good for photos”. Per farla breve, se andate a Roma con una fotocamera digitale, andate pure a immortalare il Colosseo, piazza San Pietro, piazza di Spagna e tutte le altre bellezze che la capitale riserva, ma state lontani dall’Alpheus! Non perché ci abitino mostri letali, ma perché ogni tanto in quel locale circola un singolare e raro virus che succhia la linfa vitale di tutte le fotocamere digitali, ovvero le batterie. Quella sera solo tre persone avevano preventivamente vaccinato le proprie attrezzature e quindi risultavano immuni al contagio. Noialtri poveri mortali, nonostante l’incarico di reporter, non essendo stati avvisati del virus, abbiamo subito il triste destino del contagio. Il nome del virus è B.D.S. (batteries destroyer security), i portatori del virus sono gli omoni forzuti che si vedono sparsi un po’ ovunque e che fanno finta di controllare che non succedano “disordini” all’interno.
Dal momento che né la Kick Promotion (l’agenzia che si occupava della data di Roma) e tantomeno la Liveinitaly (l’agenzia per il tour italiano degli Opeth) ci avevano avvisato della possibilità di tale contagio, nonostante ci siano state messe a disposizione protezioni ritenute sicure per il report, ma a quanto pare, non valide come antivirus (tranne che per i famosi 3 vaccinati di cui sopra, la cui identità ci è tuttora ignota), alle 21:30, con un’ora di ritardo rispetto al programma, assistiamo con rassegnazione all’inizio dello show, inaugurato dagli inglesi Amplifier, la band di supporto. Un buon rock/stoner dalle trame psichedeliche è la proposta del terzetto inglese, che nonostante la diffidenza del pubblico ed un’acustica a dir poco indecente si “sbatteva” comunque con buona energia, cercando di offrire una prestazione dignitosa. Un senso di noia era però diffuso fra i presenti, che, fatta eccezione per piccoli stuoli sparsi, innalzavano sempre più frequentemente inni agli Opeth fra un brano e l’altro. Alla fine sono più gli applausi di circostanza che quelli di vero incitamento. Ed in fondo è questo il prezzo da pagare per le band di supporto non proprio in linea con lo stile degli headliner.
Si arriva al cambio palco e cerchiamo di riprenderci lentamente dal tepore iniziale per supportare a piena voce una delle band che più di ogni altra sta facendo razzie di fans in tutto lo stivale di questi tempi, vista pure la sua alta frequenza di visite negli ultimi dodici mesi. Nel nostro precedente report dedicato agli Opeth infatti c’eravamo lasciati sperando di non dover aspettare troppo per rivederli nella terra del Bel Paese ed in effetti così è stato. Poco prima delle 23:00 ecco che si precipita dietro le pelli Martin Axenrot. A poca distanza di tempo arrivano tutti gli altri, fino a Mikael Åkerfeldt, il cui ingresso scatena il consueto delirio fra la folla. Come per la tappa dello scorso anno a Firenze, anche qui si parte con “Ghost Of Perdition”, brano estratto dall’acclamato “Ghost Reveries” e diventato di diritto uno dei cavalli di battaglia del piece scandinavo. Finalmente le teste cominciano a scuotersi sul serio e le chiome si agitano che è una bellezza. L’opening-track riporta fedelmente anche dal vivo il pathos e la carica espressa su disco ed il refrain centrale è ancora una volta un assist invitante per uno spontaneo coro del pubblico, ormai letteralmente ipnotizzato dalle note scandite dai cinque on stage. Si continua con “When”, altro “reprise” dalla scaletta di un anno prima e graditissimo ritorno al passato per tanti metal-kids scatenati sotto al palco. Ormai siamo immersi in un clima di totale delirio ed il continuo headbanging di Martin Mendez ci coinvolge irrefrenabile. Tanto più che non ci accorgiamo nemmeno di essere stati sbalzati in ben altri lidi, appena riconosciamo le note di “Bleak”. Non c’è davvero un attimo di respiro: le rasoiate di Åkerfeldt e Lindberg accompagnate dalla precisione ritmica di Mendez, Axenrot e Wiberg avanzano come fiumi in piena, senza conceder pause, a dimostrazione di uno stato di forma davvero impressionante per una band in tour per l’Europa da diverse settimane. Atmosfere diametralmente opposte si respirano per i due brani successivi, “Face Of Melinda” e “The Night and The Silent Water”, ovvero la quiete dopo la tempesta, la poesia che segue alla furia cieca, l’intimismo e la riflessività contrapposte all’istintività e alla ferocia iniziali. Tutto si ferma. Sul palco vanno in scena momenti di poesia pura, la folla viene stregata dalla voce di Åkerfeldt in egual misura a come era stata coinvolta fino a qualche istante prima. Due volti della stessa anima, stesso identico risultato. Semplicemente straordinario, aggettivo forse non sufficiente a descrivere la poliedricità di un personaggio come il lungocrinito frontman svedese, dimostratosi ancora una volta, oltre che un ottimo musicista, anche un abile intrattenitore. Bastino come esempio i suoi continui siparietti a là “Zelig” ed i frequenti scambi di battute con il pubblico, che non ha mancato di riservargli ovazioni e qualche regalino di ricordo (leggasi demo-cd) da una città dove gli Opeth non tornavano da ben dieci anni, dai tempi del tour di “Morningrise”. Si volta di nuovo pagina con “The Grand Conjuration”, song molto cara allo stesso Åkerfeldt e felice specchio dell’attuale identità dei cinque di Sörskogen, dediti a fondere un’anima prog-rock settantiana alle loro fondamenta death melodiche. Ed in chiusura di scaletta, un tuffo nel recente passato degli Opeth, con “Windowpane” e “Blackwater Park” a fare da corollario ad un’esibizione fino a quel momento poderosa. Ma è con il consueto bis finale di “Deliverance” che si raggiunge la perfezione e niente per un quarto d’ora distrae il pubblico dal tener fissati gli occhi sul palco e dall’agitar le chiome al ritmo serrato di uno dei brani più riusciti dell’intero lotto opethiano. Alla fine è un’autentica standing ovation quella che saluta la prova degli Opeth, confermatisi anche stasera uno dei pieces entrati di diritto nella storia del metal. C’è un nuovo album in cantiere. Sperando che non si faccia attendere tanto, li aspettiamo al varo del prossimo tour nello stivale, confidando pure che ci pensino bene prima di scegliere di nuovo l’Alpheus.
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