Intervista: Ianva
Salve ragazzi, e benvenuti sulle pagine di MetalWave. Vi ringrazio per la disponibilità, e vi assicuro che è per me un onore potervi intervistare.
Mercy: E per noi è un piacere fare 4 chiacchiere con voi.
Partiamo con una domanda d’obbligo: come sono nati gli Ianva e qual è stato il percorso che vi ha portato a “Disobbedisco!”?
Mercy: Il primo nucleo nasce a titolo puramente sperimentale. Ci si divertiva ad assemblare dei samples scelti tra materiale esclusivamente pre-1980 e poi a costruirvi sopra armonizzazioni grevi e tessiture percussive marziali. In seguito la particolarità del sound che si veniva a creare ci ha invogliato ad allargare l’organico per riprodurlo in modo “suonato” e liberarci, nello stesso rempo, degli oggettivi limiti armonici che la pratica del campionamento comporta. A quel punto la logica conseguenza di una sonorità che riecheggiava quello delle piccole orchestre ritmiche di una volta non poteva non essere, sul piano dei testi e dei contenuti, che un tuffo indietro nel tempo. Tutta l’operazione IANVA è nata ed è cresciuta sotto il segno di un sentimento radicale. Più precisamente da un sentimento di rivolta contro il tempo presente. Su questo hanno pesato senza dubbio le letture fatte in quel periodo che vertevano principalmente su memoriali e studi aventi come oggetto l’Impresa Dannunziana di Fiume. Il rinvenimento casuale di uno strano memoriale auto-pubblicato negli anni ‘60, infatti, mi aveva indotto ad approfondire il tema dal momento che pareva affiorarvi un mistero talmente ingombrante da essere stato poi insabbiato dalla Storia successiva. Una storia luminosa, piena di passione e di coraggio, ma anche gravata da ombre inquietanti che rumoreggiano sullo sfondo come una marea nera. E’ strano… Ma questa storia doveva essere dissepolta prima o poi.
Nella vostra band ci sono musicisti che arrivano, bene o male, da percorsi diversi (ad esempio tu, Mercy, da Il Segno Del Comando e Malombra, Argento ed Azoth dai blacksters Spite Extreme Wing)… è stato difficile unire delle ‘menti’ che ad un’occhiata superficiale posson sembrare talmente diverse?
Mercy: Vedi, quando si ha a che fare con persone di una certa intelligenza e con un certo grado di duttilità non è poi una cosa così strana trovare una sinergia tra le competenze di ognuno. E’ logico che ciò risulta impossibile in ambienti dove, prima di tutto, conta l’ortodossia settaria nei confronti del proprio genere o ambiente di riferimento. Noi abbiamo della musica una visione molto più serena e tradizionale. Conta il progetto, la qualità degli arrangiamenti, la melodia azzeccata ma non sputtanata, la forza del suono e dell’immaginario che si riesce a sprigionare. Di per contro le tribù giovanili, le loro mode e i loro linguaggi, per noi, non contano un cazzo. Ci fidiamo unicamente del nostro gusto e se questo, per caso, comporta lo sporcarsi le mani con cose giudicate coatte procediamo sereni. Di certo non starò a farmi insegnare le regole del gusto da certa gente.
Passiamo al vostro splendido album, in cui riuscite a raccontare una storia struggente che perfettamente s’intrinseca col corso della Storia. Da cosa è nato il vostro concept, quali sono state le basi che hanno dato il via al vostro cammino come Ianva?
Mercy: Dal punto di vista emotivo direi che tutto nasce da un sentimento assai arduo e complesso da descrivere. So benissimo che, se anche impiegassi tutte le mie risorse per spiegarlo minuziosamente, a una bella porzione di gregge là fuori basterebbero si e no due righe per bollare il tutto come qualcosa di reazionario, sconveniente e da evitare accuratamente. Capisci, dunque, che sono sempre un po’ restìo a lanciarmi in spiegazioni inevitabilmente destinate a dissolversi contro una dorsale di luoghi comuni e convinzioni inscalfibili. Siccome però mi trovo tra amici vuoto il sacco e tanti saluti… Il punto è che la realtà in cui ci ritroviamo a vivere fa schifo. E questa è una sensazione che trascende le categorie del politico, del sociale e quant’altro che, pure, pesano come macigni. La percezione è diventata di ordine antropologico, zoologico addirittura, poiché credo che siamo arrivati a sovvertire la nostra stessa natura di specie vivente. Ci stanno abituando a vivere nell’assenza del sacro, della nobiltà d’animo, del giusto e del bello che, a differenza di quanto si va blaterando da decenni, sono categorie tutt’altro che relative. Grettezza, meschinità, anonimia, ecco, che piaccia o no, la cifra del vivere odierno. IANVA corrisponde al desiderio di creare una scenografia sonora per un mondo dove vanno in scena altri valori, altri archetipi, altri codici. Un mondo dove nell’agire umano, benchè sconsiderato come è proprio di noi uomini, riecheggi qualche barlume e scintilla di divino. La memorialistica fiumana si è rivelata una fonte d’ispirazione perfetta in questo senso, poiché vi scorre attraverso una sorta di tempesta psichica. Mi è parso di poter leggere quegli eventi come un piccolo, agile e geniale contributo italico al più complesso scenario di un Gotterdammerung occidentale che, in capo a pochi anni, avrebbe disegnato altri e ben più paurosi arabeschi prima di spegnersi nel nulla. Si è trattato di un feedback dell’animo greco-romano nell’era delle tempeste di ferro. Un animo che si manifestò solare e festoso, incurante del prezzo da pagare, ma anche prodigo d’amore. Eroico, ma senza protervia, anzi, con una bella e struggente amarezza, una sostanziale umiltà di fondo, che nasceva dalla consapevolezza della caducità, del sostanziale patetismo dei destini di tutti.
Traspare, dal vostro album, un vero e proprio orgoglio di essere Italiani. Ma allo stato attuale delle cose, lo si dovrebbe ancora essere?
Mercy: Io dico di no. Anche il progressista medio, intendiamoci, ti direbbe di no. Solo che lo direbbe per motivi opposti. Il che non vuol dire, bada bene, che io mi ponga su un fronte opposto a quello del progressista. Sul fronte opposto ci sono quelli che mettono il tricolore nei loro simboli elettorali, o lo sventolano quando vince la Nazionale di calcio, o le rare volte che scendono in piazza su ordine dei loro grandi capi che dell’Italia e degli italiani se ne fregano tanto quanto i “cittadini del mondo” e i multiculturalisti rispetto ai quali si vorrebbero diversi. Ma, in fondo, non sono i politici il vero problema. Il vero problema siamo noi che che ci siamo abituati a convivere con il disonore e la vigliaccheria. Mi prendo la responsabilità di dire che una classe dirigente come quella italiana dovrebbe essere eradicata in massa con tutti i suoi scherani, e che se fossimo un popolo per bene lo avremmo già fatto da tempo. C’è un limite oltre il quale un popolo sano non accetta più di coesistere con lo svilimento sistematico dell’onestà, della competenza e dell’eccellenza. Mai si è vista nella Storia una società in cui concetti come la sovranità e la legalità non siano neppure lontanamente presi in considerazione da chi la dirige, dove le virtù civili sono schernite, dove la forza pubblica serve unicamente a controllare che il cittadino non sbotti, ma si guarda bene dal proteggerlo. Mai si è visto un simile intreccio di malcostume, interessi privati nella cosa pubblica, sperpero e dissolvimento, non solo delle risorse economiche di una nazione, ma anche di quelle morali e spirituali. Fa schifo questo essere servitori di mille padroni. Supini verso chiunque faccia la voce grossa anche se, a gran voce, dichiariamo di preferire i deboli e gli umili. Laddove, magari, il debole e l’umile è il barbaro che ti taglia la gola per due spiccioli. Ma, a quanto pare, anche questo bisogna amarlo, per decreto legge. Sempre per legge ora sappiamo cosa si può pensare e cosa no. La differenza tra aggressore e aggredito, tra oppressore e oppresso, tra bullo e vittima è, in tema di politica internazionale, decretata dalla legge e da quei vili leccascarpe dell’informazione, non dalla nuda e cruda osservazione dei fatti. Viviamo in uno stato di permanente menzogna. Ti dirò anche che un popolo sano non si illude che un giorno si possa diventare tutti uguali, ma esige dalle proprie élites, oltre che equità e giustizia sociale, un esempio, un modello Alto. Invece la gente passa il tempo a invidiare questi miserabili e imitarne le peggiori attitudini: per questo ti dico che, in fondo, meritiamo la fine del topo che ci stanno facendo fare.
Cosa potete dirci dei personaggi principali del vostro concept, il maggiore Renzi ed Elettra?
Mercy: Il Maggiore Cesare Renzi è un pluridecorato ufficiale degli Arditi, guadagnato alla causa dannunziana e assegnato ai servizi interni di controspionaggio della Reggenza. Il narratore del memoriale s’imbatte in lui nel corso della fase più convulsa della battaglia del Monte S. Gabriele nella primavera del 1917 quando, alla testa dei IX e XI reparti Fiamme Nere “Elba” e “Ianva”, guida un temerario contrattacco che finirà per rovesciare le sorti di una battaglia che sembrava già irrimediabilmente perduta. Si capisce che quell’incontro gli cambierà la vita, tanto da passare agli Arditi e a seguirlo anche nell’insurrezione legonaria a guerra finita. Un personaggio complesso, dotato di un coraggio apparentemente senza fine, in realtà attanagliato da un mal di vivere che lo porta a cercare la “bella morte” in battaglia, senza, peraltro trovarla (la troverà quando tutto il suo essere tenderà, forse per la prima volta, alla vita.). Dotato di una sorta di burbero acume, con occasionali punte di feroce cinismo, ma capace di profondo affetto e dedizione verso i suoi uomini, si vota all’Impresa perché vede profilarsi, pur tra tutte le incognite del caso, un nuovo mondo possibile dove “non sia intollerabile il vivere”. Elettra Stavros è una chanteuse piuttosto celebre nell’anteguerra, celebrata musa di futuristi e “intellettuali “armati”, amica di artisti e frequentatrice di potenti. Si tratta in realtà di una spia, dapprima zarista, poi interalleata. Renzi la nota già nell’autunno del ‘18, poco prima della grande offensiva sul Piave, nelle retrovie e in contiguità con alcune personalità dello Stato Maggiore. Sospetta di lei da subito. La ritrova a Fiume dove, ufficialmente al seguito di Marinetti e altre celebrità, svolge un ruolo di primo piano nell’incandescente vita artistica della reggenza. Via via si intuisce che la donna risponde ad autorità ben più occulte e sfuggenti delle intelligence alleate di cui Renzi intende svelare le trame. Si intuisce che la Storia d’Europa e, forse del mondo, passerà attraverso le mani, neppure completamente consapevoli, di due personaggi che verranno inghiottiti dall’oblio. Sono due personaggi antitetici come si conviene a due archetipi del dualismo maschile-femminile. Ovviamente lo scatenarsi di una passione sensuale tra i due, di fatto nemici in una guerra non dichiarata, non fa che accelerare le cose verso la completa rovina.
Com’è stato per voi due trasportare in maniera quasi perfettamente teatrale i due personaggi sopraccitati? (Cosa che si riscontra soprattutto in “Fuoco A Fiume”, quello che è di sicuro il mio pezzo preferito)
Stefania: Anche se qualcuno ha storto il naso, io mi diverto immensamente a portare la Stavros sul palco e su CD nella maniera che si addice a un personaggio del suo stampo, e cioè teatralmente appunto, perché Elettra non può e non deve essere una collegiale timorata, un agnellino dagli occhi bassi, o una donnicciola isterica e supponente di questo secolo. E’ un po’ una Norma Desmond ante litteram, e come tale va trattata, assecondata e rispettata in ogni sua sfaccettatura: dal piglio crudele, alla sulfurea superbia, al funebre abbandono… Fuori dallo stage e allontanato il microfono le cose cambiano, ovviamente… Elettra è Elettra e io sono io, con tutti i pregi e i difetti. Dare voce alla Stavros è stato molto gratificante, difficile e rischioso allo stesso tempo: ho messo a frutto gli anni trascorsi a cantare in molti gay party cercando di fare del mio meglio, anche perché ho sviluppato un legame quasi affettivo con il personaggio e volevo renderle giustizia…
Mercy: C’è anche stato qualcuno, un paio di elementi a dir tanto, che non hanno mancato di fare gli spiritosi a proposito di quella teatralità che abbiamo (nel rispetto dei nostri limiti, si capisce) cercato di infondere nelle nostre interpretazioni. Qui ci sarebbe da aprire una bella parentesi. La democrazia internettara sarà anche una gran bella cosa, ma ha l’antipatico effetto collaterale di trasformare in “critico” o “cronista” il primo fesso che passa, purché abbia tempo a sufficienza per frequentare un forum. Se Stefania doveva dare voce a un personaggio che già 90 anni fa sarebbe stato considerato sopra le righe, come accidenti avrebbe dovuto renderla secondo certa gente? Da rocker padana alla Laura Bono? Strabuzzando gli occhi e facendo lamentazioni lapponi alla Bjork? Intonando madrigali sub-sahariani alla Lisa Gerrard? Il buffo è che quando certa gente tira fuori Gabriella Ferri, Gilda Giuliani o Dalida pensando di schernire, non fa che renderci un duplice favore. Primo perché usando queste artiste come termine di paragone negativo si qualifica automaticamente per ciò che è: un ignorante, paraocchiuto esterofilo agli antipodi da ogni reale attitudine per l’arte e la musica. Secondo perché tirare in ballo certi nomi a nostro proposito, nell’omologazione generale che sta facendo letteralmente mancare l’aria e la forza di vivere, non fa che guadagnarci nuove attenzioni e consensi. Ti posso mettere a parte di una mia modesta impressione? La gente è stufa. Ne ha le palle piene di dizioni alla Muccino e slang giovanilistici neo-meneghini o neo-capitolini. E’ stufa di questo finto buonismo, di quell’ecumenismo del cazzo per cui va bene tutto tranne le tradizioni da casa tua. Non sopporta più questi ragazzini che fanno i capricci, che fanno i laconici, che guardano da sotto in su, con l’atteggiamento di chi è stato “molestato da piccolo”. E’ sfinita da questa gente querula, da questi macrobiotici delle sette note. Odiano questi che gabellano che Salento, Maghreb e Giamaica sono la stessa cosa e pensano di fare la rivoluzione zompando su e giù come degli idioti. Una “Bella Ciao” versione ska e passa tutto, anche il cancro… Solo che, non so come mai, la gente ha paura di dirlo. Ormai ha paura di tutto. Paura di essere sbagliata. Ma dovresti vedere il tenore delle mail che riceviamo. Anche da personaggi che con queste categorie sopracitate ci lavorano: se fossero liberi di agire in piena verità e coscienza ci scatarrerebbero sopra! Per questo prestare la voce al personaggio del Maggiore Renzi mi è riuscito relativamente facile: mi è bastato impostare agli esatti antipodi di tutta questa gente. Cosa ci può essere, infatti, di più antitetico rispetto all’antropismo contemporaneo di un ufficiale della legione fiumana? La chiave interpretativa si ottiene tenendo fermo il concetto del “dominio di sé”. Il Maggiore ha assistito a eventi spaventevoli, ha visto e preso su di sé tutta la morte del mondo, nutre passioni tenaci e asseconda l’utopia che lo circonda e lo trascina non per fede cieca, ma perché per lui l’azione è vita. Ma nel momento stesso che si racconta, tutto ciò deve filtrare a poco a poco, con una sorta di rude garbo. Non è tipo da piazzate e pianti greci. La sua rabbia e il suo dolore devono trapelare quasi suo malgrado. Nelle uniche tre foto che ho veduto, anche in una dove, in apparente relax, scherza a provare un colpo di lotta con un commilitone, non perde mai una certa piega amara delle labbra. Sembra sempre misurato e composto, anche dove si sporge da una trincea per osservare con il binocolo l’attività del nemico. C’è un gran fumo, probabilmente è sotto il tiro delle artiglierie, ma pare che la cosa non lo riguardi… Nel bene o nel male ho dato la voce a quest’uomo.
Questa più che una domanda, diciamocelo, è una mia curiosità: come diamine fate ad incarnare nella vostra musica delle influenze talmente vaste? Dal sound Morriconiano a delle venature che fanno pensare in maniera incredibile a De Andrè, dalla chanson degli anni ’20 al Folk Apocalittico…
Mercy: E’ la Musica che è vasta di suo. Le possibilità di interazione tra vari stili sono innumerevoli, ma, anche in questo caso, la vera libertà si consegue dandosi delle regole. Poche e sensate, però. Altrimenti si ricade nella solita logica dei generi e delle nicchie, per cui a una contaminazione consegue una cementificazione di nuovi canoni e l’accorrere di una torma di pecoroni pronti a servire sempre nuove ortodossie. Molto meglio ha funzionato tenere sempre presente un umore di fondo, un tratto emozionale ben preciso. Questo, oltre che essere un buon misuratore della coerenza e della congruità sonora, si è ben prestato anche a fornire una sorta di assetto programmatico. Sappiamo con estrema esattezza, tanto per dire, cosa potrebbe entrare in futuro nel nostro range musicale e cosa non entrerà mai. Non per discriminazione, s’intende (anche se non ho mai fatto mistero di disprezzare certi filoni per ciò che vanno a impiantare nelle anime e nei cervelli della gente), ma solo perché ci allontanerebbero da quegli scenari che oggi vogliamo fare nuovamente risuonare. Tutti gli esempi che hai citato hanno parecchi tratti in comune. A vari livelli e con vari esiti si ricollegano tutti al grande filone della musiche popolari europee. Popolari non in senso folk, bensì in senso moderno, novecentesco, ma anteriore alla diffusione di massa degli stili americani. Lo stesso Morricone, che in altri frangenti aveva dimostrato anche parecchia dimestichezza con stili statunitensi come il cold jazz, dovendo dipingere gli scenari epici e sanguinosi tipici degli spaghetti-western preferì guardare alla Spagna e al Sud Italia, che non è solo pizziche, tarante e cose pseudo-maghrebine inventate di sana pianta come nei CD del “Manifesto”. Quello di Morricone era un western “dello Spirito”, dove non risuonavano né hillibilly né bluegrass; la nostra è un’Italia dello Spirito, dove gli spunzoni al naso e le bracone oversize non sono mai arrivate e dove non si sa cosa sia un reality. Con questo non voglio dire che non ci piaccia molta roba made in USA, ma si tratta sempre di roba di un lontano passato. Oggi anche loro sono ai resti.
Come mai la scelta di chiudere il cd con “O’ Surdat’ Nnammurat’”? (E qui, per me, l’orgoglio partenopeo si spreca)
Stefania: Devo dire che mi sono imposta personalmente nella scelta. Tralasciando il fatto che il brano è di una stupefacente adesione ai tempi in cui la vicenda si svolge (fu una sorta di leit-motiv delle trincee e dei café-chantants per tutta la durata della Grande Guerra) e al mood stesso di una distrutta Elettra all’indomani della morte di Renzi, nonché, come già detto in diverse occasioni, un palese tributo alla prodigiosa versione data dalla Magnani ne “La Sciantosa” (un film TV che sia io che Mercy abbiamo impresso a fuoco nella mente e nel cuore, poiché avemmo la fortuna di vederlo in TV ai tempi – tanto per ribadire di quali gioie era capace la RAI prima dell’avvento disgraziato di Mediaset e compagnia brutta…), è anche un omaggio postumo a mio padre, napoletano e dalla splendida voce, che me la cantava spessissimo, assieme a molte altre. Adoro le vecchie canzoni della migliore tradizione partenopea: sono di una poesia e di una bellezza incredibile e non è detto che in futuro non ci torni sopra (una in particolare, che trovo magnifica…); darne un’interpretazione consona è un banco di prova non indifferente per un cantante. Mi sento poi ancora più orgogliosa del fatto di aver sollevato così tanti consensi, anche da parte di molti ragazzi che hanno imparato ad amare la vecchia musica italiana e ad abbandonare stupidi pregiudizi sedimentati negli anni a causa di pelosa affettazione… Naturalmente c’è stata anche una piccolissima minoranza che non l’ha digerita (gli stessi di cui abbiamo discusso prima, che non concepiscono l’ironia o non sopportano l’attitudine con cui porto la Stavros on stage, per dire…), ma sinceramente la cosa non mi scalfisce affatto, tutt’altro…. “O’ Surdat’” è un brano bellissimo, un inno all’amore e alla vita, in puro stile IANVA.
Cosa ne pensate dell’inesatto (o per meglio dire, forse, contraddittorio) accostamento che si fa sempre più spesso fra l’Impresa Fiumana ed il Fascismo? (L’Impresa fu addirittura avversata dal PNF, se la memoria non m’inganna)
Mercy: All’epoca dell’Impresa, Mussolini, rispetto a D’Annunzio, non era che un nano. Gli stessi Fasci Di Combattimento, se fossero entrati in conflitto con il movimento legionario sarebbero stati spazzati via in mezza giornata. Per questo il futuro Duce addottò una tattica attendistica. A chiacchiere si proclamava il primo tra i fiancheggiatori del Comandante, ma nei fatti perseguiva altri scopi. La situazione si chiarificò nel ‘20 quando, scaraventando repentinamente nel ripostiglio tutto l’armamentario sansepolcrista (sindacalismo rivoluzionario, fervore repubblicano, anti-clericalismo, anarco-socialismo soreliano, disprezzo per l’accumulazione capitalistica, etc...) si collocò d’autorità all’estrema Destra proponendosi, di fatto, agli industriali, agli agrari, alla borghesia e al clero come l’uomo della Provvidenza. C’è da dire che in quel periodo il caos sociale era al culmine. Le masse erano allo stremo e gli speculatori che la guerra aveva arricchito oltre ogni limite ragionevole cominciavano a temere una svolta bolscevica anche in Italia. Qui, con ogni probabilità, si situa uno snodo incompiuto che avrebbe potuto cambiare la Storia dell’Europa e del mondo. La Storia non si fa con i “se”, ma resta il fatto che Fiume fu teatro di una delle più accanite, complesse e misconosciute battaglie d’intelligence di sempre. Se D’Annunzio avesse rotto gli indugi volgendo verso Roma la sua azione, come tutti i potentati nazionali e internazionali paventavano, con ancora quasi intatta l’infatuazione nei suoi confronti dei ranghi medi e inferiori delle forze armate, gli esiti sarebbero stati vastissimi e irreversibili. Ma qualcosa intervenne a fermarlo oltre che la sua ondivaga titubanza da poeta. Mussolini beneficiò della cacarella che la prospettiva di un’azione congiunta tra Legionari e insurrezionalisti di varia provenienza provocava alla Corona, al Parlamento, al Vaticano e ai ricchi. Le sovvenzioni destinate a “Capoccione” si fecero generose, poi copiose. Fiumi di denaro andarono anche a rimpinguare le tasche di magistrati, prefetti e questurini perché chiudessero un occhio, o anche tutti e due, a fronte delle turbolenze dei Fascisti. A Fiume, intanto, la situazione era entrata in un cul de sac. Di fatto la Reggenza era diventata un mini-stato corsaro dove ribolliva un magma informe delle più varie tendenze sovversive. Lo stesso Lenin era in tal senso possibilista considerando il marxismo-leninismo del tutto inapplicabile alla realtà italiana e vedendo nel Comandante l’unico possibile leader rivoluzionario per le genti latine. Ma le cose, come sappiamo, andarono diversamente e, ancora una volta, il cinico pragmatismo si dimostrò in politica più efficace del genio immaginifico. Larga parte delle responsabilità è pure imputabile, sebbene sia vietato dirlo, alle Sinistre che, nel frangente e com’è loro costante, sbagliarono tutto lo sbagliabile. Si apriva l’era dei grandi totalitarismi e l’Europa iniziava a costruire coscienziosamente le basi per il nuovo macello che l’avrebbe cancellata per sempre dalla Storia.
Prima di passare ai programmi futuri, una domanda a sorpresa. Parlando con Argento al concerto in cui suonò come session per Hiems, venni a sapere, con orgoglio lasciatemelo dire, che voi tutti siete fans di un cantante mio conterraneo, il maestro Pino Mauro. Da cosa nasce quest’amore per lui?
Stefania: Noi stravediamo per Pino Mauro. Hai utilizzato il termine giusto: Maestro. Pino Mauro ha una voce da brividi: calda, intensa, drammatica, piena di ombre e solennità… Canta un codice ferino, un retaggio tetro e “inaccettabile”… Per me ascoltarlo è come ascoltare “la voce del sangue”, il “call of the wild”… Conosciamo a memoria dozzine di suoi brani e ne collezioniamo i vinili. Le liriche spesso sono di una “scorrettezza politica” assoluta, sorrette da un cantato stupefacente e da arrangiamenti, nei dischi degli anni 70, che non sfigurerebbero nel miglior western di Sergio Leone o di background a uno Scott Walker d’annata. La sua storia, la sua figura potrebbero fare di lui un cavaliere al tramonto come lo fu Johnny Cash prima della fine. Disgraziatamente, nel nostro stupido paese, non troverà mai il suo Rick Rubin. Qui si investe nell’ottica di vendere CD alle tredicenni e l’industria musicale se ne frega dell’Arte e della bellezza. Infatti è un’industria decotta, inferiore tra breve anche a quella del Ghana, e non è una battuta. Saremmo onoratissimi un giorno di poter avere il privilegio di conoscere Pino Mauro e collaborare con lui. Certa gente non sa cosa si perde. In Italia abbiamo avuto fior di artisti che avrebbero pienamente retto il confronto con molti dei nomi che attualmente sono annoverati, a torto o a ragione, fra i nuovi numi tutelari di questa scena. C’è questo beota tono derisorio da parte di alcuni nell’approcciarsi con superiorità alla nostra attitudine, quando buttano là paragoni, con intento a loro giudizio offensivo, citando Dalida, Massimo Ranieri, l’avanspettacolo nostrano, altri nomi dimenticati del mainstream italiano, e via discorrendo… Tutte cose di cui non solo non ci vergognamo affatto, ma di cui anzi andiamo orgogliosi… Che tipo di legame posso avere io, poniamo, con uno come Heino? Nessuno. Ce l’ho invece con Pino Mauro. Eppure Heino e le sue bombastiche flamencate yodel sono considerate molto “cool” nell’ambiente, laddove Pino Mauro resta inequivocabilmente un qualcosa di intollerabile (tranne poi buttarsi a capofitto nel solito sdoganamento postumo, corredato da “Ah, a me è sempre piaciuto! E’ così trash!”, non appena qualche “arbiter” della scena – specie se straniero – dichiari di trovarlo eccezionale…). Questo è un atteggiamento che trovo letteralmente odioso, quasi quanto certe buffonate di contorno ai gig e la solita prona esterofilia
Ed ora… Quali sono i programmi futuri di Ianva? Ma soprattutto: ci sarà mai la possibilità di potervi vedere dal vivo in Italia?
Stefania: Abbiamo appena terminato le registrazioni e siamo in procinto di dare gli ultimi ritocchi a quella che sarà la nostra terza uscita, un EP che vedrà prestissimo la luce e andrà ad anticipare il nostro prossimo full length (il quale, date le premesse e il resto, sarà cosa di non poco conto che necessiterà del suo tempo per essere portata a compimento). Anche questa volta abbiamo lavorato con cura certosina ed estrema passione, com’è nostra consuetudine. Chi segue IANVA merita rispetto e dedizione per l’affetto e l’interesse che ci dimostra, ecco perché cerchiamo sempre di dare il massimo. Cosa che, naturalmente, comprende anche la dimensione live. In questi mesi siamo stati subissati da mail in cui si richiedeva a gran voce un nostro ulteriore gig (a parte quello genovese dello scorso novembre), come se il tutto dipendesse da noi, da nostri “capricci” o snobismi… E allora ancora una volta tocca ribadire un concetto: IANVA è una band composta da 9 membri, che è solita esibirsi a formazione completa e richiede un ambiente consono. Proprio per il rispetto di cui parlavo poc’anzi, il “karaoke con basi” che pare raccolga tanti consensi, nolenti o volenti, nell’ambito di questa scena in cui siamo stati inquadrati (personalmente per la sottoscritta IANVA fa Vecchia Musica Italiana), non è proprio il nostro genere di esibizione: chi ha assistito a un nostro concerto sa perfettamente di cosa parlo, sia a livello di performance che di trasporto emotivo; insomma noi non ci risparmiamo. Capirai quindi da te che i promoter italiani preferiscono il più delle volte pagare profumatamente il più guitto e inetto dei gruppi stranieri (con corredo di base pre-registrata fuori tempo) o la formazione nostrana dalla line up ridotta, o che si esibisce gratuitamente senza neppure il conforto di un rimborso spese, o fa parte della propria cordata di amicizie e scambi di favori, per una questione di mera comodità. A sostenere questo caravanserraglio, poi, c’è tutto un codazzo di “squadristi da forum” in totale e completa malafede, composti da un pugno scarso di individui, che spargono il “verbo” a loro uso e consumo, portano acqua ai loro mulini privati per antipatie e tornaconti personali, stravolgendo la realtà dei fatti ai danni altrui. Tornando a noi: c’è da ribadire comunque che, come già dichiarato svariate volte, siamo aperti a ogni tipo di idea, pronti a ricambiare e a garantire sotto ogni punto di vista (qualitativo, di richiamo, etc…) la fiducia di chiunque volesse avanzare delle proposte serie e fattibili che non compromettano l’esibizione… Si tratterebbe solo di buona volontà e rispetto (nei confronti delle band e dello stesso pubblico), quello che evidentemente non manca ai promoter stranieri.
Siamo arrivati alla conclusione. Vi ringrazio nuovamente per il tempo concessomi, ed ora lascio a voi l’onore di chiudere come meglio credete.
Stefania: Siamo noi che ringraziamo te e lo staff di Metal Wave per il supporto e lo spazio concessoci..
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