Bunnydrums «Pkd» (2011)

Bunnydrums «Pkd» | MetalWave.it Recensioni Autore:
Zoro »

 

Recensione Pubblicata il:
--

 

Visualizzazioni:
727

 

Band:
Bunnydrums
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Titolo:
Pkd

 

Nazione:
U.s.a.

 

Formazione:
David Goerk - Vocals, Synth, Guitar, Saxophone
Frank Marr - Guitar, Trombone
Greg Davis - Bass, Guitar, Synth, Backing-vocals
Joe Ankenbrand - Drums, Percussions

 

Genere:

 

Durata:
41' 0"

 

Formato:
CD

 

Data di Uscita:
2011

 

Etichetta:

 

Distribuzione:
---

 

Agenzia di Promozione:
---

 

Recensione

Trent’anni e non sentirli. Esce nel 1980 il debut PKD degli americani Bunnydrums, e tutt’oggi (grazie a delle eccellenti riedizioni dei lavori della band, ormai introvabili) è in grado di colpirci, di graffiare il nostro udito con un sound unico e maligno, e di lasciarci inermi davanti alla sua originalità, magari facendoci riflettere su di una band che avrebbe potuto dare tanto, e che forse a suo tempo non è stata semplicemente capita.
Una musica, quella dei Nostri, in grado di dare ben più di un grattacapo ai fanatici della divisione in sottogeneri: chiamatela post-punk, post-rock, qualsiasi cosa purché “post”, oltre. Oltre la maggior parte della musica sperimentale dei primi anni ottanta, talmente oltre da quasi anticipare quello che sarebbe venuto negli anni a seguire, dal rock elettronico allo stoner. Un disco concepito con un piede nella scena post-punk inglese (quella dei Public Image Ltd. tanto per capirci) e uno nella più libera sperimentazione, chiamando in causa un comparto ritmico articolatissimo, riff psichedelici e tempi lenti e progressivi. Concludono gli ingredienti della proposta del gruppo di Philadelphia incursioni schizofreniche di ottoni e delle mai esagerate iniezioni di synth. Il tutto va a creare un suono denso e ipnotico, che quando non accarezza l’orecchio, lo trapana senza pietà, complice della voce versatile del cantante e fondatore David Goerk, che passa con disinvoltura dal cantato a guaiti sgraziati. Quello che manca ormai completamente nella musica dei Bunnydrums rispetto ai suoi predecessori anglosassoni è la spensieratezza del punk, soppiantata da una rappresentazione a tratti opprimente, a tratti sognante di una realtà urbana grigia e smorta, filtrata da una sensibilità squisitamente psichedelica.
Il disco scorre fluido, come un unico piacevole trip, anche se è costellato da continui leggeri cambi d’umore, che conducono dalle melodie elettroniche e stranianti dell’opener Smithson, alle atmosfere cariche d’elettricità di Magazine, passando addirittura per dei curiosi episodi di rockabilly “andato a male” in Shiver, o in Little Room.
Certo un disco non perfetto, minato com’è purtroppo da una certa freddezza di fondo, e dal suo voler essere volutamente sgraziato, a tratti fastidioso, il che rischia di rendere il prodotto indigesto ai non addetti ai lavori, e di relegarlo ad un pubblico di soli appassionati del genere.
In sostanza è un disco che mi sento vivamente di consigliare a chi nel rock cerca sorprese e atmosfera, a patto di volersi immergere in una musica che, quasi incurante di noi ascoltatori, cerca spesso e volentieri la cacofonia.

Track by Track
  1. Smithson 70
  2. Magazine 75
  3. Crawl 75
  4. Shiver 75
  5. Sleeping 70
  6. Little room 75
  7. Ugh 65
  8. Stop 70
  9. Too Much Time 80
  10. Too Much Time (remix) 75
Giudizio Confezione
  • Qualità Audio: 75
  • Qualità Artwork: 80
  • Originalità: 80
  • Tecnica: 80
Giudizio Finale
75

 

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