«The Unholy Alliance Chapter II»
22.10.2006
Nome dell'Evento:
The Unholy Alliance Chapter II
Band:
Slayer
In Flames
Children Of Bodom
Lamb Of God
Thin Eyes Bleed
Luogo dell'Evento:
Mazda Palace
Città:
Milano
Promoter:
Live
Autore:
Cynicalsphere»
Visualizzazioni:
4205
Live Report
Evento dell’anno, concerto imperdibile, attesissimo come-back dei padri del thrash metal! Ne avevamo lette di tutti i colori su questa seconda calata dell’Unholy Alliance Tour in Italia. In web-zine e giornali nazionali non si parlava d’altro. La “Blasfema Alleanza”, capeggiata come al solito da quei mostri sacri chiamati Slayer, tornava a fare capolino nello stivale, intenta a mettere a ferro e fuoco timpani e cervella. A supporto del battaglione innalzato da Tom Araya e soci, questa volta erano due fra le band di maggior successo tra i metal fans d’oggi, gli scandinavi In Flames e Children Of Bodom, seguiti a loro volta dai metalcorers americani Lamb Of God e Thin Eyes Bleed. Un bill da sgranare gli occhi dalla gioia, dalla cui analisi scaturiva in modo chiaro sia la dimostrazione di voler fare le cose in grande, sia la conferma dell’occhio da talent-scout esperto del vecchio Araya, ancora una volta intento a portare alla ribalta quelle che si candidano a diventare le realtà metal del futuro. Una mossa questa apparentemente orientata a continuare la “tradizione d’usanze” iniziata due anni prima con Slipknot e Hatebreed, ma a dover essere sinceri, sono davvero pochi i gruppi al mondo che possono vantare vasti seguiti di aficionados ed ampi consensi. E la scelta ricaduta in special modo sui cinque ragazzotti di Göteborg e sui loro colleghi dall’altra parte del Baltico era apparsa assolutamente azzeccata. Ma andiamo a raccontare cos’è successo in quel del Mazda Palace di Milano in una “tranquilla” Domenica di metà Ottobre, giornata cominciata per chi scrive decisamente troppo presto per i suoi consueti orari mattutini...
Il sipario si alza verso le 17.00, quando già abbastanza gente occupava parterre e spalti dell’ex Pala Trussardi: si può dare inizio al caos. I primi ad esibirsi sono i Thin Eyes Bleed. Viene subito da pensare che questi ragazzotti siano stati piazzati in scaletta perchè il signor John Araya (bassista della band, guarda caso) altro non è che il fratello del suo più famoso familiare Tom degli Slayer. Beh, forse è effettivamente così, ma a dir la verità si sono rivelati una piacevole sorpresa. Autori di un death-metalcore molto potente e preciso, i T.E.B. (chiamiamoli così per comodità) hanno sonorità che ricordano molto quelle dei loro colleghi Lamb of God, sia per le ritmiche che per la “cattiveria” dei pezzi, ma anche l'influenza del death-metal americano è abbastanza evidente, così come quella del thrash bay-area. Per quanto possa sembrare un minestrone, questi ragazzi si sono rivelati davvero bravi (e la loro formazione risale al 2004!) nel riproporre con buona precisione brani estratti dal loro unico lavoro “In The Wake Of Separation”. Una mezz'ora bastata a scaldare gli animi ed a preparare la gente a quella che sarebbe stata una serata indimenticabile. (H)
Pausa di quindici minuti per il cambio palco: gli spettatori riprendono forza ed altri ritardatari arrivano a prender posto. Si continua con i Lamb Of God, five-piece americano con cinque anni in più di esperienza rispetto ai loro predecessori e con all’attivo ben quattro full-lenghts e un live album: non sono proprio gli ultimi arrivati! Autori di un metalcore davvero potente e coinvolgente, il quintetto di Richmond (Virginia) si dimostra all'altezza della situazione, eseguendo brano dopo brano una scaletta di prim’ordine, con pezzi come “Now You Got Something To Die For” e tanti altri estratti dal loro ultimo lavoro “Sacrament”. Se non fosse stato per il primo di una serie di problemi tecnici che si sarebbero manifestati per il seguito dell’evento, il loro concerto si sarebbe potuto definire perfetto. Ma escluso questo dettaglio, i Lamb Of God sono da promuovere a pieni voti. Assolutamente. (H)
Chi invece non è sembrato in forma smagliante e decisamente al di sotto delle aspettative è stato Alexi Lahio insieme ai suoi Children Of Bodom, terza band in scaletta. D’accordo, c’è l’attenuante del secondo attacco di cuore all’impianto audio durante l’esecuzione di “Living Dead Beat” (con conseguenti bestemmie lanciate in maniera pressochè palese dal lungocrinito front-man finnico ai fonici del parterre), ma esclusa questa forzata “pausa-birra” quella del quintetto di Espoo è stata una prova in estrema sintesi noiosa come un film coreano e calda come un cubetto di ghiaccio. Complice pure una scaletta discutibile (cinque brani su otto pescati dagli ultimi deludenti album e due palesemente evitabili), per poco più di mezz’ora s’è assistito ad un’esatta riproposizione dal vivo di ciò che i Bodom offrono su disco, dall’opener “Silent Night, Bodom Night” (insieme a “Downfall” e “Sixpounder” gli episodi migliori del lotto) fino alla conclusiva “Hate Me”, unico estratto da “Follow The Reaper”. In mezzo, un’esecuzione che definire glaciale, svogliata e scolastica è usare un eufemismo. I CoB dovrebbero ormai esserne consapevoli: anche i sassi conoscono sia la loro bravura tecnica che la loro assoluta precisione. Ma ad un pinco palla qualsiasi cosa resta all’ascolto di una mera esposizione tecnica? Di certo non basta a lasciare una buona impressione sul pubblico. E dire che di magliette dei Bodom ce n’erano in giro. Forse sarebbe stato meglio per loro continuare a sentire la “Cowboys From Hell” di panteriana memoria lanciata dalle casse del Mazda Palace per stemperare l’attesa. Come anche sarebbe stato meglio per il signor Lahio non lasciarsi andare ad atteggiamenti da poser modello James Hetfield e piuttosto pensare a coinvolgere i suoi fans senza l’impellente bisogno di inserire un “motherfucker” ogni due/tre parole. Lo rivedremo con i Bodom in una forma migliore? Ai posteri l’ardua sentenza... (C)
Di tutt’altra caratura invece è stata l’esibizione degli In Flames, arrivata in un momento in cui la location meneghina aveva assunto le sembianze di un vero e proprio formicaio. Sì ok, erano tutti lì per quei “vecchietti” che sarebbero saliti on-stage un’ora dopo, ma quello offerto dai ragazzoni di Göteborg s’è rivelato un ottimo antipasto (ed anche qualcosa in più) allo show dei quattro cavalieri dell’apocalisse. Già dall’avvenieristica ed ipnotica introduzione affidata alle note di “Supercar” (con tanto di luci laser che richiamavano alla memoria quelle della supervettura del telefilm), si capisce che la pasta sarà ben diversa rispetto a qualche minuto prima. Il successivo attacco di “Pinball Map” spazza via ogni dubbio da possibili incertezze: il coinvolgimento è a dir poco impressionante. Le note scandite dalle rasoiate di Gelotte e Strömblad, accompagnate dal martello pneumatico innalzato da Iwers e Svensonn, scatenano il pogo e l’entusiasmo più totale: il parterre diventa un mare di teste in tempesta. Spettacolo puro. Lì in alto, il combo capitanato da Anders Fridèn intento a dare battaglia con una scaletta che ha attraversato quasi per intero la discografia degli In Flames. Sotto, enormi quantità di teste ondulanti al ritmo ora di “Take This Life”, ora di una “Leeches”, “Cloud Connected”, “Come Clarity”, “Behind Space”, fino a “Graveland” (per chi scrive, da brividi alla schiena), “Only For The Weak” (sulla quale il “mare umano” da tempestoso è diventato in burrasca) ed alla conclusiva “My Sweet Shadow”. Cinquanta minuti fortunatamente scampati al pericolo di improvvisi guasti tecnici, dove le capacità e la qualità di front-man carismatico qual è Anders Fridèn, unite alla bravura tecnica dei suoi compagni, si sono assolutamente fatte apprezzare da una folla divertita e coinvolta dal primo all’ultimo accordo della band. Da standing ovation. (C)
Non sono nemmeno le 21:00 quando gli In Flames terminano la loro esibizione. C’è ancora tempo per darsi una rinfrescata e fumare un cicchino, prima che l’apocalisse abbia inizio. I minuti sono però contati: alle ore 21:15 circa l’oscurità invade il Mazda Palace. E’ il segnale che tutti aspettavano. Tom, Jeff, Kerry e Dave possono dare inizio al massacro nella radunata oceanica creatasi per l’occasione. Non c’è niente da fare: gli Slayer sono sempre gli Slayer. A distanza di vent’anni dai memorabili giorni di “Reign In Blood”, c'è ancora una gran folla che desidera vedere questi ormai non proprio giovanotti californiani. Da sempre molto attivi nel nostro paese (negli ultimi quattro anni in Italia li abbiamo visti quattro volte...), attirano sempre più le nuove generazioni, dando allo stesso tempo ancora soddisfazioni ai vecchi fans con concerti come questo, in cui si fanno affiancare da gruppi sempre più all'altezza di un nome leggendario come il loro. Dopo la non proprio entusiasmante performance del Gods Of Metal 2005, dove avevano sì riproposto una bella scaletta, ma non sembravano tutti al pieno delle proprie forze, questa volta i quattro di Huntington Park si sono riscattati con una bella prestazione. Già dalle introduttive “Disciple” e “War Ensamble” si capisce che il tiro è tornato quello dei giorni migliori. Hanneman e King, stabili per tutto il concerto nella loro mattonella di spazio, macinano riffs che è una bellezza. Il buon Dave Lombardo, la cui batteria sembrava di proporzioni mostruose, si dimostra quel terrificante sfasciapelli che abbiamo conosciuto negli anni (seppur su “Dead Skin Mask” ed altri episodi isolati non sia stato proprio eccezionale). Meno convincente, anche se ce lo aspettavamo, la prova offerta da Tom Araya: gli anni passano per tutti ed anche il povero Tom comincia ad accusare la fatica e la stanchezza accumulata nei suoi venti e più anni di gloriosa carriera. Ma anche se la voce non è più quella di un tempo, lo storico frontman californiano (dalle sembianze più indie che native) è sembrato in gran forma e carismatico come al solito nel coinvolgere il pubblico durante il necrologio offerto ai fans. Da “Die By The Sword” a “Mandatory Suicide”, passando per “Raining Blood” (da urlo!), “Blood Red”, “Silent Scream”, “Post Mortem” fino alla conclusiva e celeberrima “Angel Of Death”, per più di un’ora è stato un susseguirsi di sberle e cazzotti in volto incentrati più sui momenti più alti della discografia slayeriana (ben cinque pezzi estratti da “Seasons In The Abyss”), piuttosto che sull’ultimo “Christ Illusion” (rappresentato dall’ottima “Cult” e “Eye Of The Insane”). Una scelta assolutamente in linea con le aspettative della gente, accorsa a essere onesti più per una “Angel Of Death” che per una “Cult” qualsiasi. Del resto, un pezzo di storia dell’heavy-metal oggi passava proprio da queste parti ed era improbabile non aspettarsi uno spaccato di ventitre anni di thrash fatto e suonato come si deve. Per qualcuno sarebbe stato lecito aspettarsi qualcosina in più (evviva gli incontentabili), per altri è stato il concerto dell’anno (evviva gli appagati). Per chi vi parla, è stato un concerto ai piedi della storia. E di fronte alla storia, c’è ben poco altro da aggiungere, se non sperare di non dover aspettare troppo per il suo ritorno nello stivale. (H e C)
Report a cura di HAUNTED (H) e Cynicalsphere (C)
Foto a cura di Tiziana Bellomo
Immagini della Serata
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